Il giardino urbano ottocentesco: “tableau vivant” dell’identità collettiva

a cura del Prof. Tommaso Adriano Galiani - Referente regionale di Italia Nostra Puglia per il settore educazione formazione al patrimonio - contributo della Prima Edizione

 

Il giardino è da sempre il luogo dei miti in quanto compendio di natura “costruita” goduta dagli uomini; ora dopo ora, mese dopo mese, ciascuna di queste oasi urbane diviene un vero e proprio “tableau vivant”, un’operazione progettuale che muta aspetto con l’alternarsi delle stagioni, con il passaggio degli individui, creato di volta in volta dalla luce cangiante della giornata, rendendo la città intorno, architettonicamente uguale a se stessa, altrettanto mutevole nel suo essere percepita.

Deputato agli otia intellettuali o ai giochi, privato o pubblico, claustrale o civico, il giardino è da sempre un luogo del corpo e della mente, dunque dell’agire e del pensare. Nel giardino sulla collina di Colono, oltre che in quello di Atene dedicato all’eroe Academo, maturò la filosofia platonica. Perché, filosoficamente, ogni giardino può diventare per noi luogo spirituale per eccellenza, spazio in cui la realtà può essere modellata dall’uomo δημιουργός (demiurgo), senza il quale è impossibile che ogni cosa abbia nascimento. Anche per questo, fusi in un senso di mimesi, di equilibrio uomo-natura, dovremmo contemplare e leggere un giardino come prodotto d’arte, in quanto identità di un’epoca e frutto dell’agire storico dell’uomo.

Non è un caso che i giardini siano stati documentati dalle parole di autori del calibro di Stendhal e che siano stati riprodotti da grandi artisti come il Domenichino (1581-1641), William Kent (1685 circa-1748), Lancelot Brown (1716-1783), fino ai macchiaioli e oltre. Prediligendo una rappresentazione della natura priva dei toni formali delle vedute classiche, le opere di questi ultimi, sono, forse più di quanto immaginassero, icone della metamorfosi paesaggistica ottocentesca, di quella nascente industrializzazione che originò nu¬merosi movimenti sociologici e igienisti.

Le riorganizzazioni delle città furono promosse dal governo unitario, a imitazione di altre realtà europee, ambendo a un razionale e coordinato modello di sviluppo civico. La necessità di ampie “aree verdi” all'interno del tessuto urbano borghese, infatti, fu oggetto dei nuovi piani di ampliamento o strumento d’integrazione tra il vecchio centro storico medievale e i nascenti quartieri a maglia regolare. A volte, infatti, le superfici occupate dal verde pubblico furono quelle di risulta dall’abbattimento delle mura cittadine e delle cortine murarie.

Le nuove piazze di antiche città - piccole e grandi - della Puglia, dunque, si arricchirono di viali alberati popolati da busti di cittadini illustri, di fontane con giochi d’acqua, di casse armoniche e aiuole, raggiungendo raramente un livello artistico in grado di competere con la passata arte dei giardini. Non sempre però. In alcuni casi - come questo testo dimostra – l’esigenza pratica, igienica e ricreativa si unì felicemente alle particolarità orografiche del luogo, pervenendo anche a notevoli traguardi estetici.

In contrapposizione alla logica della tipica cultura contadina, il giardino pubblico fu interpretato come un appezzamento di terreno inserito “artificiosamente” in una maglia urbana, variamente coltivato secondo l'estetica del tempo, irrigato, ospitante giostre, pergole, portici, vasche, patii e edifici ricreativi; tutto sembrava finalizzato all’ammirazione piuttosto che all’utilità. Nel corso del tempo, però, la finalità contemplativa divenne ben presto rappresentatività, in contrasto con il passato insegnamento razionalista di teorici d’architettura, come Francesco Milizia (1725-1798) o padre Carlo Lodoli (1690-1761), che miravano alla funzionalità.

Ben lontani dall’esplicita posizione espressa in un articolo del “Caffè” contro i parterre e le piantagioni di puro ornamento del conte milanese Pietro Verri (1728-1797), strati sempre più ampi di popolazione frequenta¬rono i giardini pubblici pugliesi, divenuti indispensabili aree d’incontro nella sempre più fitta maglia dell’espansione urbana, a volte sostituendosi all’antica piazza d’aristocratica memoria. Nacque, così, anche in Puglia il giardino come “spazio collettivo” per il passeggio, per beneficiare della funzione termoregolatrice della vegetazione nel periodo estivo, per intessere rapporti sociali e affaristici. Il desiderio d’emancipazione della frangia di proprietari terrieri borghesi, che similmente ai nobili vivevano nelle città, non trovava, infatti, sempre corrispondenza in proporzionate disponibilità economiche. Imprenditori, piccoli benestanti, o anche semplici gruppi familiari con bambini cominciarono a muoversi in questi spazi “neutrali”, rappresentativi del sociale e non dell’individuale, contemplando e godendo di una natura non più agreste ma “urbana”. Da spazio del sé il giardino pubblico divenne, quindi, spazio del noi; dal giardino in quanto appendice della casa e luogo-dimora del tutto introspettivo e personale, si passò al godimento di uno spazio comunitario, dimora d’incontro, di scambio e di rappresentanza.

Parvenu baffuti e diafane donne con ombrellini leggeri - ammirando per essere ammirati - si spostarono, quindi, all’interno di una verde scenografia ornamentale, rinforzata dall’introduzione di specie esotiche, procedendo lungo vialetti autorappresentativi della nuova società. Tramite statue e monumenti, infatti, venivano raffigurate le vicende significative della storia della nascente cultura nazionale e molto spesso locale. Alla funzione ecologica e fisicamente ricreativa si sommava, dunque, il godimento estetico, l’autocompiacimento e, quindi, si raggiungeva il piacere dell’anima a vantaggio del corpo.

Nel '900 l’arte del giardino in Italia in sostanza si dissolve lentamente in nome di una completa li-bertà di gusti e d’idee.

Nei grandi centri urbani, inoltre, i pressanti problemi sociali hanno ben presto imposto la sistemazione di semplici “zone verdi”, attrezzate per soddisfare le elementari esigenze igieniche, ricreative e spor¬tive delle popolazioni periferiche. Ciò che nelle antiche carte progettuali erano luoghi dell’immaginazione, si sono tramutati negli attuali Piani Regolatori in semplici “depuratori d’aria” variamente attrezzati.

Anche i piccoli parchi urbani ottocenteschi non sempre si sono salvati in nome di un utilitarismo privatista e di una demagogica “apertura al sociale”. Spesso, pseudo motivazioni socio-politiche hanno giustificato vere e proprie ecatombe di alberi secolari, distruzione di statue e aiuole.

Quando ancora ci sono, in qualche caso sembra di essere giunti alla cosiddetta invasione verticale dei barbari prevista dal filosofo madrileno José Ortega y Gasset (1883-1955): graffiti che violentano le antiche strutture di svago, cattivi odori che caratterizzano le aiuole divenute latrine a cielo aperto, statue, ideale di antichità come futuro, mutilate dei loro arti ma anche della loro eredità winckelmanniana. Questa è la decadenza in cui siamo piombati. Questa è la crisi in cui versa la coscienza estetica e il senso di ricerca delle vere e proprie “poetiche” che hanno generato i nostri giardini storici nel tempo.

Gli studi realizzati a seguito della crisi energetica degli anni Settanta, dapprima in USA e poi in Europa, hanno condotto al riconoscimento della funzione microclimatica della vegetazione per il comfort degli ambienti antropizzati. Il surriscaldamento della città è dovuto oltre che al calore, alle polveri e agli inquinanti prodotti, alle pavimentazioni stradali unite all’elevata conducibilità termica di materiali come il cemento armato.

Che l’amore e il rispetto per i giardini pubblici, organismi viventi e cangianti testimoni del tempo, memoria di epoche, bisogni, soluzioni, non sia una peculiarità italiana è risaputo. È il momento, però, che si formi una consapevolezza matura che miri a tutelare e non a violentare e sopprimere un patrimonio prezioso, genericamente definito “spazio verde” in quanto capace di contribuire notevolmente a garantire un’elevata qualità abitativa all’interno di una visione ecologica della città.

A parte i colloqui del “Consiglio Internazionale degli Architetti Paesaggisti”, solo dopo il 1978 e grazie al Convegno di San Quirino d’Orcia, l’indagine sui giardini storici è stata oggetto di particolare attenzione. Da allora in Italia molto si è scritto, meno si è fatto.

Intanto, in Europa sta prendendo corpo sempre più l’idea di una green city, in altre parole di una rinaturalizzazione della città attraverso un’integrazione strutturale del verde con il “costruito”.

Noi, come spesso accade, non dobbiamo far altro che salvare ciò che la storia ci ha lasciato.

Pubblicazioni come questa, sperano di segnare il tempo e di eludere alibi. Sperano di far conoscere e riconoscere i bisogni dell'Umano e di salvaguardare i nostri giardini storici, luoghi da abitare “fuori” affinché risuonino positivamente “dentro”.